Torno presto, lo sai. 7 Novembre 2013 – Pubblicato in: Le Storie Semplici – Tags: ,

Suo figlio cresceva sereno. Aveva quattro anni, e la guerra che stava infiammando l’Europa non era ancora arrivata nel cortile dove lui correva, si nascondeva e giocava. Lei invece sapeva. Ascoltava la radio ma non riusciva a immaginare il futuro. Preferiva osservare la terra, gli occhi di suo marito la sera, e quella pancia che mese dopo mese cresceva.

Ci può essere vita anche durante la guerra. Ci deve essere speranza anche durante la guerra.

Non andavano ad applaudire nelle piazze, non avevano tessere di partito, eppure un giorno quell’uomo con lo sguardo gentile fu costretto a indossare una divisa. Si salutarono all’alba, quel bimbo di ormai cinque anni e la bimba di uno al caldo sotto le coperte al primo piano.

«Torno presto, lo sai».

Presto però non fece la guerra. E ci fu un giorno di settembre nel quale lui e i suoi commilitoni si ritrovarono attorno a un tavolo di legno in una caserma sulle Dolomiti. Il comandante disse «Dobbiamo decidere da che parte stare». Non è facile scegliere quando sei lontano da tutto e ti hanno sempre detto che dovrai difendere la patria fino alla morte. Ma non ci fu nemmeno il tempo di parlarsi, di riflettere, di immaginare, perché arrivò un camion diretto a nord, e furono tutti presi. Prigionieri di chi fino a ieri faceva la guerra accanto a loro.

Lei cominciò a capire qualcosa quando il paese si riempì di facce straniere e sempre più mogli cominciarono a fare la fila all’ufficio postale. «Io non so, amore mio, se questa lettera ti arriverà mai. Non so dove tu sia, ma so, io lo so che stai bene»

Non lo sapeva la mattina, quando andava a lavorare la terra da sola, nella nebbia umida e fredda della bassa padana. Non lo sapeva la sera, quando tornava dai suoi due figli e quella piccola piena di ricci le chiedeva «Chi è mio papà?». Non lo sapeva quando inforcava la bici, metteva la bimba e la busta nel cestino e correva a fare la fila alle poste, al di là dal ponte, sperando che qualcuno sapesse dove far arrivare le sue parole.

E non sapeva nulla del suo futuro, di quello dei suoi figli e del sogno che aveva sognato in una chiesetta tanti anni prima, quando la sirena cominciava a suonare, e allora, con il cuore in gola, l’unica cosa che sapeva era che doveva correre via, lontano dal ponte, lontano da quell’obiettivo che da lassù volevano a tutti i costi distruggere, e dall’Adige improvvisamente cattivo, e da quelle bombe che ora sì, ora arrivavano a pochi metri dal suo cortile pieno di ghiaia.

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Non perse mai la speranza, nemmeno quando le arrivò la notizia che suo marito era chiuso in un campo di concentramento nel bacino della Ruhr, e «sa, signora, ne torna uno su cento da là».

E poi ci fu una primavera speciale, una primavera che sapeva di pace e di treni scassati che riportavano uomini stanchi a casa. E c’era lei, che vedeva passare tutte quelle facce, e pensava «Va bene, non ora, non oggi, ma un giorno sì, un giorno tornerà anche lui».

L’estate andò via, e arrivò un settembre carico di brutti pensieri, troppo pesanti per quella speranza diventata cristallo.

E poi ci fu una mattina. E una bambina di quasi tre anni che non sapeva chi fosse quell’uomo magrissimo con le mani appoggiate al cancello. «Mamma, mamma, ho paura!». Lei alzò gli occhi dall’orto e sentì il cuore che saltando le rubava il respiro, e poi corse a farsi stringere da quelle braccia martoriate dalla guerra e dalla fatica. E in un attimo quei due anni di silenzi e di lettere mai arrivate si trasformarono in una bolla che scoppiò in mille lacrime, in una bambina accanto che non riusciva a capire ma in fondo sapeva, in un bambino felice arrivato di corsa da dentro casa, e in un amore forte e grandissimo che non aveva mai smesso di voler dire speranza.