Le storie semplici: Saudade 26 Marzo 2014 – Pubblicato in: Le Storie Semplici

«Non capirai cosa vuol dire saudade finché non andrai a vivere in Portogallo»

A 22 anni, con le valigie pronte per un anno di Erasmus, è difficile fermarsi a pensare al significato delle parole. Chi se ne importa delle parole: arriverò, troverò una casa, conoscerò persone, mi innamorerò di tramonti, albe e sguardi, e ballerò fino ad avere male alle gambe.

E invece ci sono parole che racchiudono storie. E a volte riescono a raccontare in pochissime lettere il mondo al quale appartengono. L’anima del popolo nel quale sono cresciute.

Saudade sembra voler dire nostalgia. E invece no, non è nostalgia. La nostalgia è una linea retta che porta a un punto più basso, dove c’è la tristezza. E non è nemmeno allegria, perché l’allegria è un’altra linea retta, che ti fa scoppiare a ridere con gli occhi e col cuore.

La saudade è una linea morbida che sembra riempirti l’anima di ricordi che non esistono più, e poi però ti riporta più in alto di prima, perché questi ricordi diventano cura e speranza.

La saudade è una linea che traccia un sorriso leggero.

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Ed è vero, non si capisce cosa vuol dire finché non si va a conoscere il Portogallo. Finché non si passano sere a guardare tutti lo stesso tramonto che da arancione diventa rosa e poi viola e poi blu. Finché non si resta seduti sulla sabbia con lo sguardo perso nell’oceano, che non è solo acqua, ma è un pezzo di storia, ed è un ponte che ti racconta i navigatori di secoli fa. Finché non ci si ferma a parlare con gli anziani rugosi, cresciuti con il vento sulla pelle. Finché non ci si perde nella lentezza dei vicoli dell’Alfama, profumati di sardine grigliate. Finché non si sente il suono incomprensibile e magico della lingua portoghese.
«Mio padre dice che i popoli che vivono sull’oceano parlano più chiuso degli altri, perché fa freddo e c’è il vento» mi disse l’amica con la quale vivevo a Lisbona.

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Antonio Tabucchi, per spiegare il significato della saudade, scrisse una lettera al suo amico Remo Ceserani, e parlò di Dante e del suo disio, per poi chiudere con l’essenza stessa della parola:
“Via via, cercando disperatamente di tradurti in italiano questa parola intraducibile, la Saudade che di te avevo all’inizio, caro Remo, è andata aumentando, e l’auspicio che faccio è di rivederti presto, per poter matar Saudades, cioè ‘ammazzare Saudades’, come si dice in buon portoghese. Perciò direi che ora basta con la Saudade, non ti pare?”

Quindici anni fa, quando finì il mio Erasmus a Lisbona, dopo una notte insonne passata a chiedermi se fosse giusto tornare a Torino, salii su un autobus e cominciai il mio ritorno a casa. Avevo deciso di non andare via in aereo, perché sarebbe stato uno strappo troppo veloce e doloroso. E allora presi due autobus e due treni, fermandomi a salutare gli amici sparsi nella penisola iberica.

Settantadue ore di viaggio per lasciare dodici mesi irripetibili. E per osservare dai quattro diversi finestrini il mondo che stavo lasciando. Un mondo con l’etichetta Erasmus sopra, ma con dentro la mia metamorfosi, i miei sorrisi, i sorrisi delle persone che non avrei più rivisto e quelli che ho frequentato per sempre, le emozioni dell’essere un puntino di ventidue anni in un universo lontano e l’orgoglio di essere italiana a distanza, le risate incoscienti alle tre del mattino in primavera con le jacarandas in fiore e la voglia di riabbracciare la mia famiglia d’inverno con il vento appiccicato alle finestre. La saudade, che non mi avrebbe mai più abbandonata.

Le parole sono come le rocce: sono il frutto di migliaia di anni e di voci. E proprio come le rocce, raccontano storie.

La saudade non è una storia semplice. Ma è semplice e meraviglioso respirarla e perdersi dentro.