Si vince solo se fedeli a se stessi. 23 Maggio 2016 – Pubblicato in: Sponsored – Tags: , ,

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Brividi sin dal primo fotogramma.
Silenzio in sala, sullo schermo del cinema, scena dopo scena, la vita dell’atleta del secolo secondo il comitato olimpico: Edson Arantes do Nascimento, meglio conosciuto come Pelè.

Che fosse una storia spettacolare lo si poteva intuire: una grande carriera sportiva, la passione per il calcio nata in un quartiere talmente povero da aver raramente toccato un pallone gonfio, per non parlare di scarpe o scuole calcio…

Ma c’è molto di più, qualcosa di molto più profondo, c’è l’identità di un popolo, la voglia di integrarsi nella maniera più sbagliata, omologandosi al resto del mondo, reprimendo quello che fa davvero la differenza.

Dire che di calcio so poco o nulla, è anche troppo poco, ma del Brasile, lo sappiamo tutti: hanno un gioco unico, fantasioso, acrobatico, uno stile che danza sul campo, per strada, sulla sabbia a ritmo di palleggi…

Non-provare-mai-ad-essere-qualcun-altro

Non provare mai ad essere qualcun altro. Non funziona.

E se vi dicessi che ai mondiali di calcio del 1958 gli ordini furono:

…dimenticatevi chi siete e come giocate, cercate di fare esattamente come il resto del mondo e non fatevi riconoscere.

Follia?
Pura.
Eppure…

I risultati disastrosi del campionato mondiale precedente furono attribuiti al metodo ancestrale conosciuto dai brasiliani per giocare a calcio. Ancestrale, sì, si dice che l’unicità del loro gioco dipendesse dalla ginga, il passo base della Capoeira, l’arte marziale inventata dai discendenti degli schiavi africani nati in Brasile.

Niente Ginga, Dico, mi raccomando niente Ginga.

Dico, è il soprannome di un giovanissimo Pelè che approda nella super squadra del Santos a 15 anni.
Scelto per le sue doti innate, gli viene chiesto di dimenticare il suo dono, il suo talento, di provare a essere qualcun altro, di provare a fare qualcos’altro.
Inutile dirvi che questa cosa non funzionò.

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“Non siamo qui per guardar loro, sono loro che son qui per vedere noi.” L’emozione troppo grande di un ragazzo troppo giovane.

Questa è la storia di un adolescente che dovrà lottare per rimanere se stesso.
Questa è la sua storia non banale, c’è la paura vera, lo sconforto profondo, non è un romanzo.
Questa è la storia di chi decide di fare di testa sua non per spavalderia o egocentrismo, ma perché cercando di essere qualcun altro, semplicemente, fallisce.
Questa è la storia di una nazione che ritrova l’orgoglio delle origini, che sfida e attribuisce nuova luce alla parola PRIMITIVO.

Tante sono le cose che vorrei raccontarvi, partendo dalla mamma di Pelè, domestica di casa Altafini.  Vorrei parlarvi di quella volta in cui Dico e suoi amici rischiarono grosso per poter partecipare al primo torneo di calcio e la pagarono poi troppo cara. Vorrei parlarvi del soprannome Pelè, dei bambini ricchi che ridono della povertà di quelli poveri, della dignità di uomo che ha brillato tanto per finire a pulire i bagni di un ospedale.

Invece vi dirò solo che ho avuto gli occhi lucidi durante tutta la visione eccetto per quei momenti in cui invece piangevo senza filtri.
Vi dirò che non esiste un momento del film nel quale l’emozione non ti pervade, mai, nemmeno un minuto.
Vi dirò che ho capito dopo che non faceva freschino ma erano solo brividi.
Vi dirò che non vedo l’ora di rivederlo con tutta la mia famiglia e che non smetto di consigliarlo a chiunque incontro.

Vi dico, senza alcun tentennamento, che uscendo dalla sala ho avuto solo un pensiero fisso:

“Ora vado a comprarmi una maglia di Pelè e vado a conquistare tutti i miei vorrei!”

Pelè, il film dal 26 Maggio al cinema

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