Di quando i Green Day erano il male. Gli anni d’oro. 28 Novembre 2013 – Pubblicato in: 10 Must Reads, The Funky Diaries – Tags: , , , ,

A mio figlio

Basket case: commerciale.
‘Sti tipelli vogliono fare i punkettoni con la major alle spalle. Ridicoli. Che poi, fanculo le major, io ascolto solo musica che esce con etichette indipendenti!

E via a chiudersi in cameretta, ad ascoltare Dookie il giorno prima del concerto dei Rancid, in un posto che oggi si chiama Lime Light.

Cose importanti. Anzi, fondamentali. Dubbi amletici legati a correnti musicali, a uno sguardo tutto da interpretare – quasi sempre in modo sbagliato – del ragazzo dell’ultimo banco. L’importanza delle Adidas che si indossano per pogare al Rainbow, degli stivaletti 883 che portano gli zarri, del maglione di lana comprato all’usato, abbinato al pantalone a zampa portato sotto le scarpe. Il Comune di Milano ci ringrazia ancora per l’utile servizio di pulizia delle strade…

E io che avevo dimenticato.

Piena e sicura del mio non tornerei mai indietro. Dopo i trenta è cambiato tutto: sono più felice, è tutto più facile.
Si perché da babba quale sono, ho chiuso la porta in faccia a una Justine che non mi piaceva, che non mi è mai piaciuta, che se la viveva male e tutto il buio pesto possibile e immaginabile.
Anni soffiati via spegnendo le fievoli fiammelle di trenta bastoncini di cera, conficcati in una torta.
Anni rimpiazzati dalla felicità, da quel senso di pace che mi procura il vivere felicemente la mia famiglia, dallo sguardo del mio più grande amore: mio figlio.
Mi sono talmente occupata a ricordare il niente di buono, da dimenticare completamente il tutto meravigliosamente imperfetto/perfetto.

I pianti strazianti di quegli amori, tutti a loro volta unici e importanti, quelli che mi porterò dentro tutta la vita, gli stessi che ora ricordo a malapena, uno su quattro… se va bene.
Convinta che il problema fosse che non mi avessero capito, che non mi avessero mai davvero amata. Ignara del fatto che il problema fosse un altro: chi non mi amava abbastanza ero io.

anni 90 - Funky Ju

Gli anni d’oro.

Quelli che ci sono volute altre sessioni di candeline, per capire che, una volta girata la pagina, con il numero perfetto a campeggiare sula mia nuova era – tutto d’un fiato – mi sono perdonata.

Che tutto quel buio immobilizzante erano solo zone di penombra, che io sono questa, ma prima ero quella, e prima ancora un’altra. Che la somma di me + me + me fa e farà sempre ME!
Che non era poi così male. Anzi, aspetta un attimo: era proprio bello!

Poi chiedersi come mai, a trentacinque anni, avendo sempre schifato gli 883, ti ricordi un sacco di loro testi a memoria. Vabbeh, non esageriamo… diciamo i ritornelli.
Chiedersi come mai, una canzone così – così come non saprei dire – ti abbia illuminato a giorno.
Ma soprattutto, chiedersi come sia possibile sentire ancora l’imbarazzo nell’ammettere che quella canzone ti piace. Ti piace e basta, perché parla di te, degli anni del liceo e di tutto il fritto misto che ci girava attorno.
Ammettilo che non ascolti solo Ben Harper e le vecchie canzoni della Motown. Ametti una buona volta di non aver mai avuto il coraggio di comprare quel singolo di Pitbull ché io no, quella roba lì, maddai, anche no… Ma che in fondo ti sarebbe piaciuto tanto.

E allora lo ammetto: tra le bellissime canzoni di spessore artistico che ascolto, talvolta alzo le mani al cielo – sìsì, come una demente – cantando per casa California gurls di Katie Perry col buon vecchio Snoop. E non solo.
Aaaah! L’ho detto!

E ora confesso. Confesso di aver comprato l’ultimo singolo di Jake la Furia, Gli Anni d’Oro. Confesso di averla ascoltata con il lacrimone tipo manga giapponese seduta in tram, guardando con materno amore e grande nostalgia i ragazzini seduti scomposti durante il viaggio che li riporta a casa dopo le ore di scuola. Confesso che che questa canzone è riuscita a rallentare i devo fare, non ho fatto, non ce la faccio, ce la devo fare, corri, corri, corri, ché Leone all’asilo lo vorrei andare a prendere io, e tutto il disastro che mi gira spesso per la testa.

Che poi io Van Basten lo adoravo. Che quando mi è capitato di vederlo più volte da ragazzina mi batteva forte il cuore, che ho pianto quando è entrato in campo alla partita organizzata per l’addio di Franco Baresi e che ho contribuito a far venire giù lo stadio, quando con la sua caviglia dolorante, è uscito dal campo.

Ammetto che gli stivali 883 li ho avuti e li ho ancora. Che lo spacco sopra i jeans no ma, col senno di poi, lo ricordo con simpatia. Che non si contano le volte che ci hanno fermati in due in motorino, senza casco, senza testa.
Ammetto che il trono era una panchina anche per me e che ancora mi chiedo come, oltre ad ospitare un re e una regina, reggeva anche immense compagnie.

Ammetto che mi sono emozionata, quando il mio lui mi ha mandato un sms di spiegazione:

Il genio era Savicevic, pallonetto da 25 metri a scavalcare Zubizarreta, Finale Champions League ’94. Milan- Barcellona 4-0. Io c’ero.

Perché il suo io c’ero ha dentro un mondo.

io-c'ero