Intervista a Tiziana Lo Porto – Non sono quel tipo di ragazza di Lena Dunham 2 Dicembre 2014 – Pubblicato in: Funky Interviews – Tags: , , ,

Ed ecco qui. Alberto, @Giovane_Albert al secolo Alberto Capra, già contributors per diverse realtà dal sapore più newyorkese che italiano, leggi: Contemporary Standard

La meglio gioventù editoriale, quella che ha voglia di scrivere contenuti non di facile lettura: come una volta. E chi se ne frega se il tempo del web è tiranno! Fate finta di avere una rivista in mano.

Questo è il suo atteggiamento. Da sempre, e lo conosco da un po’.

Per noi Mamas è andato a studiarsi il pluriblasonato Girls. Si è persino visto tutte le puntate, ha studiato il libro e poi ha pensato bene di completare con una intervista a Tiziana Lo Porto.

Abbiamo voluto dare una chiave di lettura diversa. Un punto di vista maschile in un ambito femminile? Non saprei, più un tentativo sperimentale di intendere un fenomeno culturale più vicino alle “sue” di corde che alle nostre: vuoi per età, stile di vita, idee.

Un bel pezzo che ci porta dentro a un essere con gambe e braccia, non un libro, ma una porta verso l’universo Girls, per questo va letto con calma e per una volta capiremo l’importanza delle stelline su Twitter…ti salvi un preferito e lo riprendi in elenco di lettura più tardi.

C.

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Dal 30 settembre è disponibile nelle librerie di tutto il mondo Non sono quel tipo di ragazza (titolo originale Not that kind of girl), opera prima di Lena Dunham, autrice, regista e protagonista della serie tv Girls, dall’11 gennaio in onda, con la quarta serie, sul canale americano HBO.

Tiziana Lo Porto si è occupata della sua traduzione.
Giornalista (Minima&Moralia, La Repubblica), ha curato, tra le altre, la traduzione di Evita lo specchio e non guardare quando tiri la catena e Seduto sul bordo del letto mi finisco una birra nel buio, di Bukowski (Minimum Fax), di Radicalchic, di Tom Wolfe (Castelvecchi), e di In stato di ebbrezza, di James Franco (ancora Minimum Fax). Assieme a Daniele Marotta, inoltre, è autrice di quello che è a tutti gli effetti un caso letterario: Superzelda, la vita disegnata di Zelda Fitzgerald (Minimum Fax), graphic novel dedicata alla vita e alle gesta della moglie dell’omonimo scrittore. Abbiamo letto il libro della Dunham e ne e abbiamo parlato con Tiziana, cercando di capire per quale ragione una rivista come il New York Times Magazine, abbia ritenuto opportuno dedicare a lei la copertina del suo annuale Culture Issue.

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A cosa è dovuta tutta questa attenzione intorno all’uscita di questo libro?
«Il successo che ha caratterizzato le prime edizioni di Girls ha catalizzato sulla Dunham l’interesse di un intero establishment culturale e le voci sul compenso che le sarebbe stato accordato da Sperling & Kupfer hanno ulteriormente alimentato la curiosità per quello che è, a tutti gli effetti, un fenomeno di costume – si parla di una somma pari a 3,5 milioni di dollari».

La Dunham è, oggi, il più noto prodotto del più radical degli ambienti liberali newyorkesi: la madre, Laurie Simmons, ebrea, è una nota artista, fotografa e filmmaker, mentre il padre, Caroll Dunham, protestante, è un pittore.
Lena è cresciuta fra le strade di Soho, dove i genitori si sono trasferiti nel 1973, quando il quartiere aveva preso ad essere un polo d’attrazione per chiunque si muovesse nell’ambito della creatività. Trasferitasi a Brooklyn, all’età di 13 anni, iscritta alla Saint Ann’s School – nota per il clima estremamente freak, l’assenza di voti e regole, oltre che «for the clintele of celebrity parents and constantly stoned high schoolers» (Urban Dictionary) – ha, successivamente, frequentato un corso di laurea in scrittura creativa all’Oberlin College, un liberal arts college privato, celebre, fra l’altro, per essere stato il primo ad ammettere regolarmente studenti di colore, oltre che uno dei primi a predisporre dormitori misti. Una “fantasia dell’amore libero”, come lo definisce Lena nel suo libro.

«Al primo temporale dell’anno, studenti nudi si riversavano nel cortile interno impiastricciandosi gli uni con gli altri con il fango. (Io mi mettevo un tankini)»

Un background che non ha mancato di suscitare qualche polemica: facile finire sulla HBO quando frequenti fin da piccola certi ambienti, quando sei figlia di due artisti, bianchi, e hai origini ebraiche. Un artifizio retorico che ha perso di qualsiasi consistenza davanti al riscontro di pubblico e di critica che un lavoro come Girls, scritto alla straordinariamente giovane età di ventisei anni, ha saputo ottenere con le prime tre stagioni. La Dunham è divertente. È una sorta di Wood Allen al femminile. È incasinata, è ipocondriaca, soffre di disturbi ossessivo compulsivi.

«La lista delle cose che mi tengono sveglia di notte include, ma non è limitata a: l’appendicite, il tifo, la lebbra, la carne andata a male, i cibi che non ho visto con i miei occhi tirare fuori dall’involucro, i cibi che mia madre non ha assaggiato prima (così se moriamo, moriamo insieme), i senzatetto, il mal di testa, lo stupro, il rapimento, il latte, la metropolitana, il sonno.»

Con la sua serie tv ha raccontato in maniera rivoluzionaria la vita e l’evoluzione sentimentale di un gruppo di ragazze. Niente buonismi, niente censure. La sessualità al centro del racconto: libera, consapevole, spensierata, talvolta esagerata.

«Tutto quello che sapevo quando tornavo a casa da una festa barcollando dietro di lui si riduceva al fatto che era un teppistello burbero e un povero sfigato a poker. Come questi elementi possano spingere una donna a fare sesso con un simile individuo è spiegabile nel contesto della repulsione rapidamente trasformata in desiderio se mescolata ai giusti rilassanti muscolari.»

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Le scene di nudo che l’hanno vista come protagonista hanno suscitato un ampio dibattito: Lena è una ragazza normale, formosa, lontana dallo stereotipo della bellezza di Hollywood. Si è mostrata a più riprese senza vestiti, ha ritratto il suo corpo in maniera cruda, spesso ridicola. Nessun filtro, niente di diverso da quello che, secondo la sua esperienza, vivono centinaia di migliaia di sue coetanee, a New York, in questi anni. Una scelta narrativa interpretata da alcuni come una rivendicazione: non servono modelle, in televisione, per parlare di sesso, questa è la vita vera, quella in cui donne normali si mostrano, scopano.
Una scelta tanto forte da essere strumentalizzata. Sul numero di febbraio di Vogue U.s.a., Lena è apparsa in copertina con una foto post-prodotta. I suoi detrattori l’hanno accusata di aver sacrificato la causa femminista sull’altare della vanità: è bastata un po’ di fama perché il desiderio di apparire prendesse il sopravvento sui messaggi (positivi) veicolati fino a quel momento, si è detto.
Accuse pretestuose che la Dunham ha saputo rintuzzare in maniera inappuntabile: «È buffo quando mi accusano di anti-femminismo perché, come nel caso della copertina di “Vogue”, lascio che usino Photoshop sulle mie foto. Si aspettano che vada sulle copertine in t-shirt e senza trucco? Soltanto perché non sono magra non significa che debba avere un trattamento diverso da tutte quelle che sono andate sulla copertina di “Vogue”» (così al Corriere).
Un femminismo “istintivo”, il suo, nessuna nauseante retorica, nonostante la frequentazione di «scuole private ideologicamente evolute in cui la disparità di genere era una materia di studio come l’algebra».
Una disinvoltura che solo chi agisce in maniera assolutamente naturale, può ostentare. La stessa che le consente di affermare di aver voluto realizzare un libro che sapesse inserirsi nel solco tracciato da Helen Gurley Brown (leggendaria direttrice di Cosmopolitan), con i suoi Sex and the single girl e Having it all: una che, negli anni ’70, dedicava il paginone centrale del femminile che dirigeva ad un nudo di Burt Reynolds e che diceva alle sue lettrici cose come «Se non sei un oggetto sessuale, vuol dire che hai un problema» – ecco, ora pensate alla Boldrini, nel 2014.
Alcuni hanno sostenuto quanto sia riduttivo inquadrare il libro della Dunham in termini di romanzo di genere.

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Tiziana tu sei una di questi, mi spieghi perché?
«Trovo in generale irritante la separazione della cultura in maschile e femminile. Ma non credo (e mi auguro) di (non) essere l’unica a pensarla così. Ho sempre pensato a Lena Dunham e ai suoi film, serie tv e adesso al libro, come a un qualcosa che è al di là dell’appartenenza di genere. Se ho scoperto Lena Dunham è perché Bret Easton Ellis ne parlava benissimo, ed è un uomo. Ed è un uomo. Mentre, proprio alla prima stagione di Girls, mi è capitato di intervistare Mary Gaitskill che ne parlava male, ed è una donna.
Non ho mai considerato Lena Dunham un’icona di un presunto neo-femminismo. E non credo nemmeno lei voglia proporsi come tale».

Sia Girls che Not That Kind of Girl sono produzioni totalmente autoreferenziali.
Dentro ad entrambi c’è tutta la vita della Dunham. Quando Hannah scopre che non potrà pubblicare il suo libro fino a quando non scadranno i diritti in mano alla sua precedente casa editrice, sbotta: «Tutta la mia vita era in quel libro! Qualsiasi cosa mi sia mai successa! […] È tutto lì dentro! E ora che dovrei fare? Vivere altri 25 anni per scrivere un’opera che eguagli quella che mi hanno rubato? E se non succedesse niente nei prossimi 25 anni?».

Può forse essere questo il vero limite della Dunham? Dopo aver prosciugato questa fonte di ispirazione sarà in grado di produrre materiale all’altezza senza poter attingere alle sue esperienze dirette?
«Non credo la vita sia una fonte esauribile. Dunham, poi, fa un’operazione anche più interessante rispetto a certi autori (ricordiamo che in questo non è comunque un caso isolato) che si limitano alla scrittura.
Il contenuto della sua opera è sì sempre legato in maniera più o meno fedele alla propria vita, e però cambia ogni volta forma, sia usando il cinema, la televisione o un memoir (ma anche attraverso i racconti che scrive ogni tanto per il New Yorker), sia inserendo gradi variabili di finzione con libertà assoluta. E al tempo stesso la sua vita va avanti, e dunque resta una fonte a cui attingere nuovamente e a cui decidere che forma dare e quanto distanziarsene»

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Cosa ha reso Girls tanto speciale?
«È una serie scritta con intelligenza, diretta bene, interpretata bene, riempie un vuoto, racconta qualcosa che nessuno stava raccontando. Possiamo dire che più concause hanno contribuito a questo successo. In genere mi pongo domande come questa solo quando c’è una discrepanza tra successo di pubblico e qualità del prodotto. Girls, così come il libro, sono semplicemente belli».

Cosa li rende belli?
«Non c’è una formula, un qualcosa che possa essere replicato. Prendi Tavi Gevinson. Non esiste un modello Dunham che potrebbe esserle applicato nel caso volesse scrivere una serie, nei prossimi anni. Dipende tutto dalle persone. Quando una persona è talentuosa le cose vanno come devono andare. Quando una cosa mi piace non mi pongo mai questo tipo di interrogativi».

Non credi che una parte di questo enorme successo possa dipendere dalla capacità della Dunham di raccontare storie verosimili, in grado di consentire una grande immedesimazione?
«Io non sono molto d’accordo con questa interpretazione. Greta Gerwig, ad esempio, è amica della Dunham, sono grosso modo coetanee e per questo sono spesso associate. La Gerwig ha scritto assieme a Noah Baumbach – sceneggiatore di Wes Anderson e, per altro, suo fidanzato – un film che si chiama Francis Ha, di cui è anche protagonista.
Lei ti racconta un’altra storia, un’altra realtà, nonostante la comunanza di interessi, di conoscenze, di frequentazioni. Le protagoniste di Girls sono fondamentalmente quattro ragazze piuttosto benestanti, non rappresentano un modello comune. Il fatto, poi, che la Dunham riesca a trasmettere una sensazione di autenticità è un’altra cosa»

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Qual è la differenza?
«Essere autentici significa disarmare l’interlocutore di ogni preconcetto, far comprendere che ciò che si sta raccontando è reale. L’autenticità permette una migliore comprensione. Ma questo può capitare anche con la storia di un serial killer, senza che ciò dipenda da un processo di identificazione. L’autenticità è in grado di stimolare la curiosità e di provocare delle emozioni. Lei, in questo, di sicuro “arriva”, cosa che, per dire, non accadeva con Sex and the City, al quale Girls è spesso equiparato»

Non trovi si tratti di un modo di raccontare le cose molto attuale? Non so, penso a I Cani e ai pariolini di diciott’anni. Io non ho quell’età e non vivo a Roma ma quelle storie sono state in grado di catturare la mia attenzione.
«Conosco bene Niccolò [Contessa, leader de I Cani, n.d.a.] e credo tu abbia ragione.
Penso, però, ci sia un equivoco di fondo, su questo tema. Sembra che tutto ciò che è vero debba necessariamente essere interessante, piacere per forza. È fondamentale, invece, che il contenuto sia adeguatamente veicolato da una forma che sappia trasmetterne tutte le sfumature.
Non basta essere stati in un ospedale psichiatrico o in un carcere per essere scrittori di successo. Non basta una storia forte. Essere in grado di raccontare tutto questo è altrettanto importante, forse ancor di più.
La Dunham è molto onesta ma è anche molto brava a trasformare le sue storie, a modularle con linguaggi diversi. Se io scrivo una storia sulla mia vita a chi interessa? Se la riesco a rileggere, a trasformare in un’altra cosa, allora sì può diventare una cosa ben fatta. L’arte ha bisogno di un tramite per essere raccontata. Serve sempre un correlativo, in termini di linguaggio, che sia in grado di restituire la verità».